Il processo
- Dettagli
Dopo l'attentato, Michele Angiolillo fu trasferito nel carcere di Vergara dove, il 13 agosto, si tenne una breve istruttoria del processo di cui era scontato l’esito: l’esecuzione capitale. Il giorno dopo, il 14, cominciò a porte chiuse il processo, sempre nel carcere di Vergara, dinanzi a un tribunale militare, il “Consejo de guerra ordinario”, presieduto dal giudice Fernando Almarza Zulueta, colonnello di fanteria. La pubblica accusa fu affidata al tenente uditore Carlos de la Escosura y Fuertes, mentre la difesa d’ufficio di Angiolillo la sostenne un tenente d’artiglieria, Tomas Gorria y Oral.
Il governo italiano si preoccupò di contenere “possibili sentimenti anti-italiani” in Spagna. L’ambasciata italiana a Madrid, in un rapporto al ministero degli Esteri di Roma, scrisse: «Nessuna manifestazione di cattivo animo contro gli italiani. Ognuno comprende che la setta anarchica è fuori di ogni nazionalità. Han giovato pur tuttavia e han fatto grandissima impressione i telegrammi dell’E.V. e quello della Presidenza del Senato, che sono stati seguiti dalle condoglianze e proteste del presidente provinciale, comunale e camera di commercio di Napoli, Avellino, del sindaco e giunta di Foggia».
Il 16 agosto, il pubblico ministero chiese la condanna alla pena di morte e il pagamento di trentamila pesetas alla vedova; il difensore di Angiolillo chiese il riconoscimento dell’infermità mentale del suo assistito perché «pazzo, allucinato, incapace di distinguere il bene dal male» e pertanto «irresponsabile per ciò che ha commesso».
Dopo la richiesta del pubblico ministero e l’arringa della difesa, prese la parola Angiolillo. L’anarchico negò l’esistenza di un complotto internazionale e disse che il suo gesto era una conseguenza dei fatti di Montjuich. Disse, inoltre, di aver sempre seguito gli ideali rivoluzionari per l’abolizione di tutte le forme di autorità e di governo. L’autodifesa di Angiolillo fu pubblicata - nonostante il divieto delle autorità italiane - dal periodico anarchico “L’Agitazione” di Errico Malatesta nel settembre del 1897. «Canovas», disse ai giudici il tipografo foggiano, «personificava in ciò che hanno di più ripugnante la ferocia religiosa, la crudeltà militare, l’implacabilità della magistratura, la tirannia del potere, la cupidità delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la Spagna, l’Europa, il mondo intero. Ecco perché io non sono un assassino ma un giustiziere».
Angiolillo fu condannato a morte in primo grado e il 18 agosto il “Tribunal supremo de marina y guerra” ratificò la condanna a morte comminata dai giudici di Vergara, «da eseguirsi per strangolamento mediante garrotte». La sua reazione fu fredda. «Indifferente come un illuminato per la sorte che gli è serbata», scrisse l’ambasciatore italiano al ministero degli Esteri, «mostra grande vanità di aver compiuto un gesto storico. Solo suo desiderio è quello di leggere giornali o conferire pubblicisti; finora ha rifiutato ogni colloquio con frati e preti, che numerosi, com’è qui l’uso, vogliono la conversione del delinquente».
In Italia la condanna a morte di Angiolillo fu accolta tra le proteste, che trovarono spazio anche sui giornali. «Come il Canovas con tante amarezze nell’animo», scrisse il Corriere della Sera del 19-20 agosto, «possa aver ecceduto nella repressione; che in Spagna paese classico dell’Inquisizione e della tortura, questa sia stata applicata là nei sotterranei bui di Montjuich; che fra i quattrocento detenuti, parecchi, forse molti, innocenti siano periti fra i tormenti non è che credibile. Ed è deplorevole. La tortura applicata ad innocenti è delitto di lesa maestà che non vale a scusare nessuna ragione di stato: applicata ai colpevoli è inutile barbarie».
Il 20 agosto 1897, alle ore 11, la condanna a morte fu eseguita.
:: L'esecuzione
In effetti pensava già all'esecuzione.
Durerà pochi sopportabili istanti: questo pensava e subito dopo arricciava il naso e dava un colpo di tosse per non far capire niente agli interlocutori, per non lasciare in proposito neppure un sospetto. Pensieri come questi in genere restano in testa; ma nel caso di Michele, se anche la Guardia Civil avesse deciso di passare il prigioniero alla tortura magari per cavare importanti rivelazioni sui complici, non avrebbe saputo che farsene di un pensiero così curioso, un pensiero sulla durata della morte. Tutto questo a riprova del fatto che le guardie cercavano la verità avendo un'idea precisa già in principio e la curiosità, quindi, era un inutile disturbo.
(Tratto da "Questionario per il destino")